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“Questo punto si attiene alla for-
ma del Lied e, nel dirigere io bat-
to il tempo in uno invece che in
quattro: c’è un effetto di colore,
un effetto timbrico da sottoline-
are, un effetto tipico della musi-
ca da camera, un certo profumo
di “Schwindigkeit” (vertigine da
svenire). La scelta brahmsiana
delle parole si ritrova in varie sfu-
mature, varie nuances della mu-
sica. Quasi suggerendo un certo
profumo schubertiano. Nella mia
attività artistica ho suonato mol-
ta musica da camera, varie volte
i Quartetti di Haydn, di Beetho-
ven, di Schubert. E, rivolgendomi
all’orchestra, dico spesso loro:
“Suonate come fosse musica da
camera, ascoltandovi l’un l’al-
tro”. Egualmente questo consiglio
veniva sottolineato sempre da Ka-
rajan, come tutti i rapporti tra la
musica e i significati del testo”.
C’è una ragione per cambiare la
disposizione sulla ribalta delle se-
zioni dell’orchestra?
“Certamente. Ho proceduto a di-
sporle come si usava ai tempi di
c’è molta cantabilità, molta varie-
tà di colori. Si avverte, dirigendo-
li, la ricchezza delle sfumature,
la ricchezza timbrica del suono,
dell’orchestra come del coro. La
disponibilità a cogliere, a rendere
le emozioni della musica”.
Nell’altro programma in questa
stagione di Santa Cecilia lei dirige
la “Jupiter” di Mozart e la “Pri-
ma Sinfonia” di Mahler. Com’è il
suo rapporto con il sinfonismo di
Mahler?
“Negli otto anni in cui ho suonato
la viola nei Wiener Philharmoni-
ker ho studiato a lungo la musi-
ca di Mahler in corrispondenza
dell’impegno esecutivo nei con-
certi e nei dischi. Mi ha sempre
colpito l’attitudine di Mahler a
trasferire nella propria musica tut-
to quanto aveva assimilato duran-
te l’esistenza, specialmente nella
giovinezza, dalla tradizione, dalla
propria biografia, in rapporto al
folclore, al lungo retaggio delle
sofferenze popolari nel medioevo
e sino all’età asburgica. Ora, un se-
colo dopo la scomparsa di Mahler,
quella tradizione, quel retaggio
popolare di sofferenze e sconfit-
te, non c’è più. Ritroviamo però
quell’eco nella musica di Mahler
e nel dirigere le sue sinfonie ab-
biamo tutti l’urgenza di ritrovare
l’atmosfera espressiva originaria,
trasmetterla alle orchestre che di
volta in volta io dirigo, in modo
da far rivivere con la maggior
autenticità possibile lo spirito, le
emozioni, i palpiti, i sentimen-
ti dell’autore come li ritrovia-
mo all’ascolto e nell’eseguire la
sua musica. Il senso della natura
come l’ironia, la tensione come il
grottesco, tutto quanto sta a monte
della musica della Prima Sinfonia
che dirigo nel programma di mag-
gio a Santa Cecilia. La attualità
di Mahler, come viene percepita,
nei suoi travagli esistenziali, da-
gli ascoltatori d’oggi. I rapporti
del sinfonismo mahleriano con il
mondo del Lied austro-danubiano,
nonché con Schubert e con Bruck-
ner. Nell’andamento di danza del
Brahms: a sinistra da-
vanti i primi violini, a
destra i secondi violini,
le viole al centrosini-
stra con i violoncelli
vicini ai primi violini,
a destra i contrabbas-
si. Questa disposizione
è utile per assicurare
la maggior trasparen-
za del suono, come
Brahms appunto vole-
va”.
Leggo nella biogra-
fia che dirige a Praga:
com’è la situazione?
“Praga è una delle sedi
dove sono direttore
ospite per periodi di tre
settimane. È una buona
orchestra, la Filarmo-
nica di Praga. Quando
ho diretto delle Sinfo-
nie di Dvořák ho sem-
pre raccomandato agli strumenti-
sti: “ Dvořák è sinonimo del senso
ritmico derivato dal folclore po-
polare, è la vostra tradizione, non
dimenticatelo mai!”
Però Pittsburgh?
“Pittsburgh è un’altra cosa, sono
direttore stabile! Non solo per la
lunga sua storia ma perché è anche
un’ottima orchestra, con prime
parti che suonano con il virtuo-
sismo dei solisti. E con l’insieme
sonoro sempre molto trasparente.
Sono sempre concentrato sull’at-
tività musicale a Pittsburgh. E non
di rado devo darmi da fare per tro-
vare nuovi finanziamenti privati,
a seconda dei programmi e dei ca-
lendari”.
Ha dei “sogni nel taschino” o nel
“cassetto”?
“Io sogno sempre quando faccio
musica. Si trova sempre qualco-
sa di nuovo da sognare e poi da
realizzare. Se al mattino suono il
pianoforte, come fanno vari di-
rettori? Non suono il pianoforte,
Ländler dello Scherzo della Prima
Sinfonia si può cogliere l’eco del
Wienerwald di Josef Strauss: mai
meccanicità, sempre profumo del-
le sfumature. Ritmi naturali, non
troppo accentati”.
A Pittsburgh intende procedere a
nuove registrazioni
?
“Senz’altro. Ho intenzione di re-
alizzare una nuova incisione del-
le Sinfonie Prima, Terza, Quarta,
Quinta di Mahler. E
di Bruckner, dopo la
Quarta, registreremo
l’Ottava e la Nona”.
Dai ricordi viennesi,
rammenta
qualche
connotazione partico-
lare dei maestri del po-
dio con i quali, assieme
ai Wiener Philharmo-
niker, ha fatto musica
per varie stagioni?
“Ho suonato la vio-
la nell’esecuzione di
vari allestimenti, per
esempio, di Carmen:
con Claudio Abba-
do sul podio, con
Lorin Maazel, con
Carlos Kleiber. Tre
emozioni
differen-
ti. Di Carlos Kleiber
rammenterò sempre
l’elettricità che si in-
staurava quando co-
minciava a trasmette-
re all’orchestra il senso, lo spirito
della musica che aveva studiato.
Sapevo che Carlos era molto pe-
dante, scrupoloso, rigorosissimo
nello studio delle partiture, per
esser poi libero nel realizzare nel
suono il proprio disegno dell’in-
terpretazione. Prendendosi dei
rischi, ma nulla in definitiva gli
scappava di mano. Maazel batteva
il tempo in due, Abbado in uno,
Carlos Kleiber non ci badava per-
ché mirava al senso della lunga
frase, al respiro della grande ar-
cata espressiva. Di altri maestri
ho egualmente dei ricordi precisi,
esaurienti. Herbert von Karajan,
neanche la viola o il violino. Al
mattino sfoglio nuove partiture e
le studio. In linea generale dedi-
co molto tempo allo studio. Dedi-
co una particolare attenzione alle
mie partiture, sulle quali integro
osservazioni, colori, sfumature.
Preciso il senso delle arcate che
contraddistinguono la mia visione
dell’interpretazione musicale”.
Ho notato una vivacità particolare
della sua mano sinistra, vero?
“In genere si hanno a disposizione
soltanto quattro prove, quando se
ne vorrebbero fare trenta! Per tra-
smettere all’orchestra tutto quel-
lo che si ha pensato per rendere
l’autentico spirito della musica.
Tornando sul Requiem Tedesco
di Brahms: il senso del “vibrato”.
Quando c’è un’allusione alla mor-
te, niente vibrato. Le mani d’un
direttore hanno la specifica fun-
zione di trasmettere all’orchestra
il senso del fraseggio. Nell’at-
tacco iniziale dei contrabbassi, il
senso del legato. All’inizio della
musica di Brahms bisogna far ca-
pire come il suono nasce dal silen-
zio. E quindi nell’interpretazione
vi sono tre stadi successivi: lo stu-
dio, il gesto, il senso dell’autenti-
co spirito della musica”.
Vi è una nota frase di Claudio Ab-
bado: “Meglio la musica nella testa
che la testa nella musica” durante
il concerto, alludendo al dirigere a
memoria d’ascendenza toscaninia-
na. E per lei?
“Vi è anche una nota frase di
Riccardo Muti: “Si è più liberi
quando si sa che sul leggìo c’è la
musica”. La cosa essenziale, indi-
viduale, è prodigarsi per far bene
la musica”.
Come si trova sul podio di Santa
Cecilia, anche se le prove sono li-
mitate?
“Torno sempre volentieri a dirige-
re a Santa Cecilia: trovo che nella
resa dell’orchestra come del coro
sin dal suo apparire, era il “Chef”:
molto serio ma con il culto della
responsabilità nei confronti della
musica, degli autori delle partitu-
re sul leggìo. Aveva un grandis-
simo rispetto dell’orchestra, noi
strumentisti lo sentivamo come
un padre. Tutto concentrato nella
ricerca del suono giusto. Leonard
Bernstein a volte sembrava uno
capitato lì per caso, nelle prove
era naturale e immediato. Claudio
Abbado, di cui sono stato assi-
stente, parlava poco: se c’era un
problema di intonazione lasciava
che l’orchestra lo risolvesse. Si
scatenava nel concerto e trasmet-
teva all’orchestra, specialmente
con Mahler, tutta la sua tensione.
Lorin Maazel aveva una chiarez-
za comunicativa esemplare nel
gesto. Da tutti loro ho imparato
qualcosa. E, prima di tutto, mol-
to studio. Il far musica è assolu-
tamente personale. Ciascuno deve
trovare la sua strada, la sua libertà
d’espressione”.
Luigi Bellingardi
Gustav Mahler acquaforte di Emil Orlik
Manfred Honeck © Felix Broede